In un deprimente giorno della marmotta, nonostante le smentite concrete della teoria economica che regge le nostre società, ci troviamo periodicamente ad aver a che fare con gli aumenti dei tassi di interesse che colpiscono inevitabilmente lavoratrici e lavoratori indebitate (anche solo per avere acceso un mutuo per l’acquisto della casa).
La teoria economica sulla base della quale vengono prese tali decisioni da parte delle principali Banche centrali dell’occidente si chiama Teoria Quantitativa della Moneta (TQM). Tale teoria sostiene che l’inflazione deriva sempre da un eccesso di moneta in circolazione e che possa essere abbattuta solo da politiche cosiddette restrittive che colpiscano al cuore l’eccesso di circolazione monetaria, riducendo in questo modo l’inflazione.
In altre e più concrete parole, riducendo i salari, si riduce il nostro potere d’acquisto, provocando una forte propensione da parte di lavoratrici e lavoratori a consumare il meno possibile e provocando così l’arresto dell’aumento dei prezzi. Si tratta della teoria della formica e della cicala, un vecchio evergreen di tutte le classi dirigenti che hanno sempre preteso di risolvere i problemi facendo stringere la cinghia a noi.
In particolare i banchieri centrali che sostengono questa tesi oggi, giustificano la loro azione dicendo che il ciclo di aiuti all’economia varato con la pandemia del 2020/21 avrebbe determinato un eccesso di denaro in circolazione. In pratica ci viene raccontato che il denaro fatto circolare durante il lockdown e il periodo immediatamente successivo tramite aiuti, bonus, superbonus e cassa integrazione sarebbe la causa dei successivi aumenti dei prezzi.
Quindi, i quattro soldi messi in circolazione all’epoca della pandemia (e, ricordiamocelo, finalizzati a sostenere l’economia, cioè le aziende) sono il “peccato” che oggi dovremo scontare facendo penitenza e stringendo la cinghia!
La realtà, come succede spesso, è ben diversa: i salari italiani sono stati caratterizzati da una diminuzione del 3% nel trentennio 1990/2020 (unico paese in tutte le principali economie ad aver avuto una diminuzione); nel 2021 sono ulteriormente diminuiti dell’1,3% e nel 2022 del 7,6% (spoiler, i dati del 2023 saranno ancora peggiori tenendo conto di quanto l’inflazione ha continuato a mangiare il valore dei nostri salari). In questo quadro il rialzo dei tassi, tramite l’aumento dell’indebitamento, ha come conseguenza un’ulteriore distribuzione del reddito dalle lavoratrici e lavoratori ai percettori di rendita. In altre parole un furto ai poveri a favore dei ricchi!
Ma, soprattutto, siamo sicuri che la causa dell’inflazione sia nell’aumento della quantità di moneta in circolazione? Oppure che sia legata, come sembra ovvio all’aumento dei prezzi energetici provocato dalla guerra tra Russia ed Ucraina?
Come abbiamo visto i salari non possono essere ritenuti responsabili dell’inflazione e gli studi più attenti comunicano che solo un terzo dell’inflazione corrente deriva dall’aumento dei prezzi dell’energia. Ma allora da dove arriva? I dati di bilancio delle aziende italiane per il quinquennio 2017/21 ci danno un importante indizio per capire dove sono finiti i soldi.
Il valore della produzione tra il 2017 e il 2021 è cresciuto del 14%, quello del margine operativo lordo del 29%, ma l’utile netto delle aziende italiane è cresciuto del 77,5%! Anche il crollo della produzione e degli utili dovuto alla pandemia è stato abbondantemente recuperato in un solo biennio.
Siamo quindi davanti a un aumento dei profitti più che doppio rispetto all’aumento del margine operativo. La conseguenza immediata la si può vedere nell’aumento dei depositi bancari delle aziende che sono aumentati nello stesso periodo del 70% toccando la cifra record di 515,3 miliardi. Per completezza, nello stesso periodo i depositi bancari in generale sono aumentati solo del 24%.
Questo dato ci dice due cose: i profitti delle aziende sono cresciuti in modo sostanzioso, anzi estremo, e questo denaro non è andato a finanziare investimenti produttivi ma ad aumentare i depositi delle banche che hanno quindi accresciuto i loro margini operativi in un modo mai visto prima!
Siamo quindi di fronte a un fenomeno inflattivo trainato dai profitti e non dai salari!
La prima conseguenza di questo dato è che le politiche di innalzamento dei tassi e quindi di contenimento dei nostri salari, non solo ci fanno male, ma sono anche inutili se il fine è quello di bloccare la crescita dell’inflazione.
Conseguentemente occorre chiedersi quale sia una politica che permetta di bloccare la spirale inflattiva proteggendo il valore dei nostri salari.
Una prima risposta è quella di operare tramite misure finalizzate a contenere i prezzi da un lato e aumentare la pressione fiscale sulle imprese dall’altro, alla riduzione del margine di profitto aziendale. In altre parole, controllo dei prezzi e riforma fiscale inversa a quelle approvate dagli ultimi governi.
Nemmeno gli economisti mainstream d’altra parte sostengono che si debba sempre e in qualunque modo operare nel senso di aumentare costantemente i margini di profitto delle aziende. L’aumento del margine di profitto aziendale italiano del quinquennio 2017/21, come abbiamo visto, lascia ampio spazio all’assorbimento non solo degli aumenti dei prezzi delle materie prime e dell’energia, ma anche a una revisione delle politiche fiscali in senso meno favorevole alle imprese e quindi più favorevole a lavoratrici e lavoratori.
Un’ultima, non certo per importanza, considerazione va svolta riguardo al sistema di contrattazione che ci ha portato in queste condizioni. La sostanziosa perdita di valore dei salari è iniziata negli anni Novanta dello scorso secolo e coincide con la scelta di CGIL-CISL e UIL di abbandonare ogni rivendicazione di ancoraggio del valore dei salari ai prezzi. A partire dal 1993 l’obiettivo dichiarato della politica della concertazione diventa il contenimento dell’inflazione con le conseguenze che abbiamo visto nei termini di vero e proprio crollo del valore dei nostri salari. Nel 2009 tale politica viene peggiorata da un accordo separato tra Confindustria, CISL e UIL che prevede che gli aumenti salariali siano legati a un indice inflazionistico chiamato IPCA depurato che non tiene conto dell’inflazione provocata dai prezzi dei beni energetici importati (altro spoiler, praticamente tutti…). In questo modo i rinnovi contrattuali che nella vulgata dovrebbero essere il momento di recupero dei salari sui prezzi, non tengono conto di uno dei principali fattori di quello che una volta veniva chiamato carovita!
L’inflazione e la perdita di valore dei salari non sono quindi il frutto di un triste destino contro cui nulla è possibile, come i nostri avi consideravano l’eventuale caduta della grandine sul raccolto, ma il frutto di precise scelte politiche condivise dai governi di tutti i colori che si sono alternati sulla scena politica, dalle centrali aziendali e da CGIL-CISL e UIL che hanno scambiato il monopolio sulla rappresentanza della classe lavoratrice con la progressiva tosatura di quest’ultima a favore delle classi imprenditoriali e redditiere; dei ricchi, insomma!
Organizzarsi e mobilitarsi in difesa delle nostre vite e dei nostri redditi fuori dalle centrali sindacali concertative rimane ad oggi l’unica possibile soluzione a questa situazione che ci vede sempre meno capaci di esprimere la nostra potenza di colonna effettiva della società e sempre più sprofondati in una miseria dalla quale convulsamente e senza risultati cerchiamo di fuoriuscire in modo individuale ricorrendo a un’arte di arrangiarsi che ormai lascia il tempo che trova.
I BASSI SALARI NON SONO UN PROBLEMA INDIVIDUALE, SOLO LA LOTTA COMUNE PUO’ SALVARCI!