Secondo i dati forniti dall’Ocse l’Italia è l’unico, tra i membri europei che vi aderiscono, in cui i salari medi sono diminuiti rispetto al 1990. Che ci sia un problema salariale nel nostro paese, è ormai evidente a tutti; non a caso il tema dell’introduzione o meno di un “salario minimo legale” sta diventato un argomento sempre più dibattuto. Il crollo della dinamica salariale nel nostro paese è dovuto a diversi fattori.
Un aumento esponenziale dei rapporti a part-time, soprattutto “involontari” e diffusi principalmente nei settori dei servizi e tra le donne.
L’applicazione di contratti collettivi nazionali come il Multiservizi o i Servizi Fiduciari, se non anche alcuni dei cosiddetti “contratti collettivi pirata”, che riconoscono salari irrisori e particolarmente diffusi tra le aziende che gestiscono attività in appalto, ma non solo.
Il diffondersi di rapporti lavoratori a cui non sono riconosciuti in parte o in toto, le voci del salario diretto e indiretto della contrattazione collettiva: i soci di cooperativa, i co.co.co., le false partite iva monocommittenti, gli stagisti.
Nonostante ciò, il centro del problema sono i modelli con cui CGIL-CISL-UIL, Governo e Associazioni Datoriali hanno definito modalità e contenuti della contrattazione collettiva, e che con l’avvio della “concertazione sociale” hanno dapprima smontato (Accordo separato e Decreto di San Valentino del 1984) e poi definitivamente abolito la “Scala Mobile”, sostituendola con il regime definito dall’ Accordo Interconfederale del 1993.
Il risultato di trent’anni di “concertazione sociale” è rappresentato dal grande divario nella forbice sociale, con i profitti degli imprenditori che sono cresciuti esponenzialmente, mentre i salari dei lavoratori sono diminuiti del 2,9% rispetto al 1990.
E ciò è stato possibile grazie alla costruzione, iniziata nel ’93, di un sistema di monopolio della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro in favore di CGIL-CISL-UIL, culminato oggi nel Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014. Il tutto è servito ad affossare i Consigli di Fabbrica, a smobilitare i lavoratori e ad attribuire alle tre centrali sindacali il ruolo di interlocutori contrattuali stabili di Governo e Padronato, nell’ambito di una centralizzazione dei processi di contrattazione, al fine di garantire l’accettazione rassegnata da parte dei lavoratori dell’introduzione di misure di austerità economica e di flessibilizzazione del mondo del lavoro.
Abbiamo quindi assistito, in questi decenni, solo per fare gli esempi più eclatanti, all’introduzione di contro-riforme che hanno precarizzato il mondo del lavoro senza alcuna opposizione sociale; rinnovi dei contratti nazionali con aumenti miseri dai 50 agli 80 Euro, che non riuscivano neanche a recuperare l’inflazione reale calcolata dall’ISTAT, spalmati su almeno quattro anni; il dirottamento di quote sempre più importanti di salario in favore di Enti Bilaterali e fondi sanitari o previdenziali privati, cogestiti da sindacalisti e imprenditori; il blocco dei rinnovi contrattuali per molti anni, che hanno fatto risparmiare solo le imprese; il salario, che in questo modo si è trasformato in una “variabile dipendente” dall’andamento economico dichiarato dalle aziende, tanto più nelle contrattazioni di secondo livello con l’introduzione dei premi di risultato.
La CUB è nata proprio per combattere questo “sistema”, per praticare una netta rottura con la “concertazione sociale”, mettendo in guardia i lavoratori che il sistema introdotto con l’Accordo del 1993 avrebbe approfondito un processo di “moderazione salariale” iniziato già alla fine degli anni ’70, che aveva messo da parte la lotta alle disuguaglianze anteponendogli la compatibilità rispetto al quadro economico complessivo, la redditività delle imprese, la sostenibilità dei conti pubblici, favorendo uno spostamento della ricchezza in favore dei profitti degli imprenditori a discapito dei salari dei lavoratori.
Per combattere questo sistema, è necessario dotarsi di un apparato rivendicativo coerente, che abbia l’obiettivo di rimettere nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici la definizione della “questione salariale”:
- A fronte della attuale dinamica inflattiva, è necessario rivendicare aumenti salariali di 300 Euro, oltre che la reintroduzione di un meccanismo automatico di indicizzazione dei salari all’inflazione, come era la Scala Mobile, dato che è l’unico sistema che può tutelare con sicurezza e stabilità gli stipendi rispetto all’aumento del costo della vita.
- Introduzione di un Salario Minimo di 12 Euro che deve essere inteso ed elaborato non come uno strumento che possa rivelarsi sostitutivo della contrattazione collettiva, ma come un plafond al di sotto del quale la contrattazione collettiva non può scendere. Anche il Salario Minimo deve essere indicizzato automaticamente all’inflazione, così da non lasciare al Legislatore la possibilità di ridurlo arbitrariamente.
- Introduzione di una Legge veramente democratica sulla rappresentanza sindacale e sull’efficacia dei contratti collettivi in modo da rispondere a due urgenze.
Innanzitutto riportare la democrazia nei luoghi di lavoro, consentendo ai lavoratori di eleggere liberamente i propri rappresentanti sindacali, possibilità che oggi gli è preclusa.
In secondo luogo, definire dei parametri oggettivi – per es. numero di iscritti e risultati delle elezioni – per determinare con effettività chi sono i sindacati e le associazioni datoriali effettivamente rappresentative e che possono stipulare contratti collettivi che abbiano efficacia erga omnes (cioè con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria a cui il contratto si riferisce).
Solo con una legge democratica di questo tipo si potrebbe dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione, che appunto recita: “I sindacati […] Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Sono invece da contestare quei tentativi, contenuti in alcune proposte di legge sul Salario Minimo, che vorrebbero attribuire efficacia erga omnes ai contratti che vengono stipulati da CGIL-CISL-UIL senza passare dalla verifica della loro effettiva consistenza e rappresentatività tra i lavoratori. Innanzitutto, perché contrastando con il dettato dell’art. 39 risulterebbero incostituzionali; ma anche perché hanno l’ingenuità o l’obiettivo esplicito di garantire la sopravvivenza di quel sistema di monopolio dei diritti sindacali e della contrattazione avviato con la “concertazione sociale”.
- La lotta alla flessibilità del lavoro deve essere il nostro snodo decisivo; dobbiamo contrastare tutte quelle misure che da svariati decenni hanno trasformato il mercato del lavoro con il fine di frammentare, dividere ed indebolire i lavoratori.
Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per i tempi pieni, perché garantirebbe un aumento occupazionale stabile. Part-time non inferiori alle 24 ore settimanali.
Ripristino dell’originale tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per contrastare i licenziamenti illegittimi.
Reintroduzione di causali stringenti per i contratti a tempo determinato; eliminazione degli stage, della somministrazione e dei co.co.co.
Reintroduzione del principio di parità di trattamento tra i lavoratori del committente e quelli delle fasi esternalizzate, come primo passo per la reinternalizzazione di tutti gli appalti.
- Rigettiamo le politiche ricattatorie e di costrizione al lavoro, pertanto è necessario rivoluzionare il nostro sistema degli ammortizzatori sociali, basandolo su strumenti semplici e tali da garantire un’estensione universale dei diritti e la garanzia di un reddito dignitoso per tutti i soggetti deboli: un Reddito Minimo Garantito di 1000 Euro per chi è senza lavoro e per i pensionati; cassa integrazione ordinaria e straordinaria basate su rotazione, consultazione sindacale di chi è veramente rappresentativo nell’unità produttiva e diritti di informazione anche per i singoli lavoratori, di importi pari all’80% della retribuzione mensile imponibile ai fini previdenziali, così come per l’assegno di disoccupazione.