UNA SCONFITTA ANNUNCIATA
1. La sconfitta referendaria del 9 Giugno era ampiamente attesa. Tra le stesse promotrici della consultazione lo scetticismo era fortemente diffuso. Salta subito all’occhio la cialtroneria e il pressapochismo di un comitato promotore che aveva delegato il successo della consultazione all’accoppiata con il referendum sulla legge riguardante l’autonomia differenziata. Quest’ultimo avrebbe dovuto (nella testa delle e dei promotori) tirare la volata agli altri referendum perché fortemente popolare soprattutto nelle regioni del centro-sud, immediatamente penalizzate da una legge pensata per favorire le regioni ricche del nord a discapito di due terzi del paese.
Una scelta così condizionata al volere della Consulta ed alle sue decisioni era già in partenza un segnale di grande debolezza, così come era un segnale di debolezza ricorrere all’istituto referendario per questioni relative ai rapporti di classe. La prima volta che avvenne, nel 1985 per il taglio di due punti dell’allora ancora attiva scala mobile, il referendum ottenne ampiamente il quorum (all’epoca le percentuali di voto superavano sempre il 90%) ma venne sconfitto 54 a 46. E’ importante ricordare che quell’Italia era ancora un paese dove la quota parte di popolazione operaia sfiorava il 35% della popolazione complessiva mentre il lavoro dipendente in generale superava il 70%. Nonostante questi dati il consenso alla ripresa del maltolto fu inferiore alla metà dei
votanti. Questo avvenne da un lato perché nel lavoro dipendente si calcola anche quella quota parte di lavoratrici e lavoratori impiegati di ufficio o comunque con mansioni superiori che, nel clima di restaurazione degli anni Ottanta, si erano schierati con le classi superiori di cui condividevano la visione del mondo ed erano ben compresi del fatto che una sconfitta operaia avrebbe determinato un loro vantaggio.
Dall’altro lato la politicizzazione del referendum non giovò al successo della consultazione e milioni di persone votarono in base allo schieramento di appartenenza. In epoca di regressione delle sinistre ed affermazione di un blocco centrista a guida DC-PSI, il referendum venne anche impallinato dalle posizioni sullo stesso dei partiti politici. Il 1985 fu anche l’anno della massima avanzata del PSI di Craxi e l’inizio di un serissimo arretramento del PCI alle elezioni amministrative svolte un mese prima della consultazione su lavoro.
Negli anni successivi ogni volta che il paese è stato chiamato a pronunciarsi su questioni riferite ai rapporti lavorativi non è mai stato raggiunto il quorum, né a destra, né a sinistra.
Il lavoro stesso è scivolato sempre più in un angolo, complice la percezione dell’assoluta impossibilità di incidere da parte di lavoratrici e lavoratori sui processi di ristrutturazione in corso. Il lavoro salariato ha continuato ad essere la principale fonte di sostentamento per la popolazione del paese ma è scomparso completamente come soggettività, capace di porre i propri interessi e la propria visione del mondo nell’agone sociale.
La decisione di regolare i conti con quanto resta del jobs act per via referendaria è stata quindi sostanzialmente stolida, considerando i precedenti e soprattutto considerando il lavoro di distruzione della classe come aggregato politico messo in pratica negli ultimi 40 anni almeno da parte degli stessi promotori dei referendum. La pratica concertativa nata proprio al volgere degli anni Novanta dello scorso secolo ha visto la Cgil come principale protagonista; oggi lo stesso sindacato sta pagando lo scotto di questa scelta che, nel tempo, lo ha privato di ogni capacità di muovere il conflitto e quindi di mantenere un ruolo di protagonista nello scenario politico.
Le maggiori vittorie ottenute contro la restaurazione del potere dispotico imprenditoriale nelle aziende in questi 40 anni sono venute dai giudici e non dalle mobilitazioni che il sindacalismo concertativo ormai non tenta neanche più e che non hanno lo spazio politico per costituirsi in modo autonomo. Anche solo questo dato deve farci ragionare: a fronte del tentativo padronale di deregolamentare completamente il mercato del lavoro, l’unica vera trincea a disposizione di chi lavora è stata quella offerta da un potere statale come quello giudiziario che nella sua natura di presunto arbitro dei rapporti tra i poteri, ha colpito in questi anni l’eccessivo rafforzamento del polo imprenditoriale.
2. Ma come è successo tutto questo?
Fondamentalmente tre sono stati i movimenti che hanno permesso lo sfascio di un movimento di classe ancora 50 anni fa tra i più avanzati dell’occidente.
a) una trasformazione del tessuto sociale del paese. Il progressivo disimpegno della classe capitalistica italiana dall’investimento imprenditoriale ha determinato il mutamento delle dimensioni e della capacità di incidere sul conflitto (anche solo redistributivo) tra le classi nel paese da parte delle classi lavoratrici. Le mobilitazioni degli anni Sessanta e Settanta poggiavano su di un tessuto operaio di grande impresa e su una condizione di tendenziale piena occupazione.
Gli anni Ottanta vedono ancora una composizione sociale dove si ha una forte presenza di lavoratrici e lavoratori della grande impresa ma in condizione di progressiva regressione e di ristrutturazione della produzione, soprattutto in quella capitale operaia costituita dal vecchio triangolo industriale tra Milano, Genova e Torino.
A questa regressione, che diventa esponenziale a partire dagli anni Novanta, quando le mutate condizioni internazionali permettono anche al capitale italiano l’avvio del processo di esternalizzazione della produzione, si deve aggiungere la sconfitta della soggettività operaia la cui datazione si fa normalmente risalire all’autunno 80 al termine della battaglia della FIAT, ma che era stata lentamente preparata nel corso degli anni precedenti, almeno dal biennio 1975/76 con le prime ristrutturazioni nell’area milanese. Il lavoro operaio perde la sua centralità intesa in primo luogo come capacità di imporre la propria agenda al resto della società e nel decennio successivo non è in grado di contrastare in modo efficace il processo di trasformazione al ribasso della struttura industriale. L’ultimo sussulto della vecchia composizione operaia avviene nel 1994 quando la controriforma delle pensioni mobilita per l’ultima volta il tessuto delle fabbriche ancora
forte nel paese. E’ un fuoco fatuo; l’anno successivo una riforma di identica fattura con l’aggiunta della postilla che prevede di salvare le pensioni di chi lavorava da più di 18 anni al momento dell’entrata in vigore, passa senza opposizione di sorta.
La vecchia classe operaia realizza un obiettivo insieme corporativo e generazionale mentre la nuova composizione sociale si scopre vulnerabile e smarrita, senza punti di riferimento e soggetta a un’ondata senza precedenti di precarietà e cancellazione delle tutele sociali. Si rifugerà in soluzioni sempre più individuali o al limite di piccolo gruppo, cercando tra le pieghe del nuovo capitalismo gli strumenti della sopravvivenza. Si consuma il divorzio tra le istanze conflittuali sul terreno sociale e il mondo del lavoro; da allora ad oggi i movimenti sociali nel paese saranno sempre più esterni alla conflittualità sul luogo di lavoro e il conflitto si allontanerà sempre di più dai luoghi di lavoro, quasi come i due concetti fossero completamente estranei tra loro.
b) la trasformazione del ruolo del sindacalismo nel paese. Il biennio 1992/93 con la proiezione di Cgil-Cisl e Uil nel ruolo di partecipanti alla gestione delle condizioni del processo produttivo nel paese determina la salvaguardia delle organizzazioni sindacali a scapito degli interessi delle classi lavoratrici nel loro insieme determina una curvatura corporativa all’interno del mondo del lavoro. Le agitazioni che ancora si danno, vengono agite su obiettivi spesso aziendali, al meglio categoriali e senza alcun collegamento con il resto delle lavoratrici e lavoratori. Sul terreno sociale l’abbandono del conflitto a favore della concertazione porta all’esasperazione del processo di difesa del “proprio” posto di lavoro e all’introiezione dell’idea che il “nemico” sia costituito da lavoratrici e lavoratori delle imprese concorrenti. Questo processo avviene più facilmente in un tessuto di media e piccola impresa che diventa egemone e che riesce ad imporre socialmente il proprio ordine del discorso e a condizionare pesantemente anche il discorso politico. Il corporativismo sindacale nelle imprese maggiori e l’adesione alla narrazione imprenditoriale nelle medie e piccole aziende si tengono tra di loro e permettono un articolazione del discorso sempre più centrata a livello individuale e sempre meno socialmente condivisa.
A questo aggiungiamo lo strutturarsi di un livello alto di disoccupazione e il contemporaneo diffondersi di un lavoro nero, mai venuto meno nel tempo ma dagli anni Novanta in poi in
piena espansione. Il riconoscersi delle persone che lavorano come classe, con questi presupposti, viene meno e viene meno anche la solidarietà reciproca a qualsiasi livello. Oggi sui posti di lavoro la credibilità sindacale è data dalla capacità dell’organizzazione di risolvere questioni individuali o, al meglio, aziendali. Il fallimento del sindacalismo di base, con il senno di poi ampiamente prevedibile, è determinato proprio da questo stato delle cose sulle quali la riproposizione del modello sindacale novecentesco intercategoriale, solidale e improntato a un “noi” contro “loro” costruito su dinamiche di classe che le stesse e gli stessi componenti che vi si dovrebbero riconoscere non sentono come proprie quando non rifiutano in radice il concetto stesso.
c) la costruzione di una normativa preventiva e repressiva il cui scopo è quello di impedire che il paese diventi nuovamente teatro di forte conflittualità sociale è stato avviato con la prima legge contro lo sciopero nel 1990 ed è proseguita fino ad adesso con una legislazione che sempre di più dispone il divieto di conflitto nei luoghi della produzione. Preventiva e repressiva perché la sua finalità non è solo quella di colpire le azioni di sciopero e di agitazione successivamente ma di educare lavoratrici e lavoratori ad evitare di muovere il conflitto all’interno dei luoghi di lavoro in modo da escludere completamente i luoghi della produzione dalle interferenze del dissenso e della contestazione, anche solo economica. Questo processo ha prodotto i suoi frutti diseducando due intere generazioni di lavoratrici e lavoratori, impedendo loro quell’apprendimento pratico della lotta necessario alla costruzione di qualsiasi mobilitazione. Il conflitto però è naturale nelle comunità umane, soprattutto all’interno di una formazione sociale come quella capitalistica che tende alla polarizzazione della società come naturale portato delle ineguaglianze prodotte dal mercato. Il conflitto però ha inevitabilmente dovuto cambiare luogo di espressione. I movimenti sociali che hanno coinvolto lavoratrici e lavoratori si sono prodotti su altri terreni e spesso con una forte componente locale. Il caso NoTAV è eloquente. In valle Susa abbiamo assistito negli anni della maggiore battaglia contro la grande opera a una continua deindustrializzazione e desertificazione del tessuto produttivo dell’area. La solitudine di chi si è trovato a combattere per non perdere la propria fonte di reddito è stata palpabile, nonostante le stesse persone che lottavano contro la delocalizzazione fossero spesso impegnate nel movimento. L’evidenza è stata ancora maggiore all’ILVA di Taranto, dove lavoratrici e lavoratori si sono
divisi tra la difesa acritica e corporativa della fabbrica e la richiesta di bonifica ambientale radicale in collegamento con le e gli abitanti della città e dei quartieri dove di ILVA si muore.
In entrambi i casi il conflitto sociale si è dato nella dimensione del territorio coinvolgendo le persone non in quanto lavoratrici e lavoratori ma in quanto abitanti di un territorio minacciato dall’estrattivismo. Il conflitto non è più rientrato sui luoghi di lavoro ma le stesse classi lavoratrici lo hanno agito all’esterno del posto di lavoro, consapevoli dell’estrema difficoltà ad adottare forme radicali di scontro che invece si possono dare nello spazio del territorio. Non è un caso che la reazione dei governi, in particolare quelli esplicitamente orientati a destra, sia stata quella di varare una serie di decreti sicurezza il cui scopo è quello di svolgere la stessa funzione della legislazione contro lo sciopero sul territorio.
3. Il mutamento della composizione sociale del paese ha ovviamente prodotto anche uno spostamento nella costruzione delle identità sia individuali che collettive. L’appartenenza di classe, contata in tempi neppure troppo lontani, esce completamente dalla narrazione con la quale le persone -per quanto appartenenti sociologicamente alle classi lavoratrici- si identificano. La narrazione operaia che nel trentennio glorioso del capitalismo europeo era un simbolo di potenza e di imposizione al resto della società della propria visione del mondo e dei propri bisogni, diventa un racconto di sconfitta e di marginalità con il quale difficilmente ci si può identificare. D’altra parte i molti tentativi di inventarsi soggetti unificanti (penso all’epopea mancata dell’operaio sociale o a quella altrettanto fantasmatica del cognitariato) o falliscono o diventano simboli di una condizione dal quale emanciparsi al più presto, come nel caso della narrazione sul precariato.
In questo corpo sociale smembrato e svuotato di senso hanno facile presa narrazioni fortemente individualistiche e tendenti alla promozione sociale personale in diretta concorrenza con le persone che si trovano in condizioni simili alla propria.
La percezione di una condizione comune si allontana dai luoghi della produzione per presentarsi al più come forma identitaria fondata su altri miti che poco o nulla hanno a che fare con la classe. Pensiamo all’appartenenza nazionale il cui fantasma è pienamente tornato e si fa carne nei dispositivi razzializzanti ed in quelli escludenti. Anche nell’ambito referendario ne abbiamo avuto una prova con il numero molto alto di NO al quesito riguardante la cittadinanza. Quest’ultima sentita come un beneficio particolare che non si vuole in nessun modo condividere, operando così scelte di campo che viaggiano sulla linea dei documenti in possesso delle singole persone.
Le condizioni comuni del genere, dell’etnia o del territorio, anche all’interno dei movimenti di critica e di opposizione sono diventate gli unici fattori in grado di costruire identità comune, azione e capacità trasformativa. Il terreno sociale si muove oggi su queste coordinate e la stessa azione sindacale non può che essere coinvolta da questo tipo di trasformazione. Il risultato referendario è
un’ulteriore conferma della strutturazione attuale delle identità all’interno della quale ci muoviamo. Non tenerne conto, incolpare l’improvvida decisione della Cgil o l’idiozia delle e
dei lavoratori del paese è stupido, oltre che inutile. E’ la stessa cosa che incolpare il destino o la malasorte. La realtà vera è che ci troviamo dopo la fine di un ciclo dell’umanità -perlomeno di quella
occidentale- in cui l’identità operaia è stata centrale nel determinare mentalità, narrazione e attività anche politica delle persone. E’ stato un ciclo di estrema importanza e all’interno
del quale molte e molti di noi si sono formate. Però è finito e non da oggi. La costruzione di un’identità di classe che tenga conto delle molte altre identità dalle quali siamo attraversate ed attraversati, in primo luogo quella di genere ma non secondariamente quella relativa alle provenienze nazionali e alla nostra condizione o meno di razzializzate e razzializzati, è appunto una costruzione, non una riscoperta dei miti del passato.
Una classe non è tale quando si trova in una comune condizione sociologica, dalla quale
spesso vuole solo fuggire, ma perché trova attorno alla propria condizione la capacità di
costruire un’identità che punti a superare in modo collettivo la propria condizione e che
possa farsi forza di questa all’interno dei conflitti sociali.
Il terreno sul quale lavorare è questo e non è nemmeno detto che la forma sindacale sia la più adatta alla trasformazione del nostro agire.
Partiamo da qui, con la consapevolezza della necessità di superare i limiti insiti nel nostro agire, senza risposte semplici e ancora una volta con l’intento di trasformazione radicale del mondo con gli strumenti che ci sapremo dare
Stefano Capello